UMANI, DOPOTUTTO gen 2021

Rimasi lì accanto a lei per ore, mentre riposava e le infermiere facevano avanti e indietro per controllarle i parametri, finché non si affaccio in camera una signora bionda, ancora decisamente attraente ma discretamente più grande di me. Non appena vide Elisa distesa nel letto corse ad abbracciarla con foga, piangendo e disperandosi, urlando che non l’avrebbe più lasciata.
Lasciai la stanza dopo essermi presentato e mi allontanai cercando di raggiungere il bar per un caffè.

Percorrendo i lunghi corridoi tenuti luminosi da luci bianche sparate, mi ricordai di avere una ragazza, una famiglia e un amico a cui dare notizie, così cominciai col giro di chiamate.
Decisi di partire dalla più semplice: Mirko, che liquidai con poche parole. “Ammazza, che cazzo!” fu la sua risposta all’insieme di notizie dategli in un paio di minuti; e lui era andato, infatti decise di non raggiungermi immediatamente.

Poi chiamai i miei, assicurandoli che stavo bene, che non dovevano preoccuparsi, che Elisa era stabile e sarebbe sicuramente andata a trovarli, non appena si fosse rimessa. Mio padre la adorava. Forse anche lui, da uomo, in qualche modo era rimasto ammaliato dal suo modo di fare che rendeva dipendenti. Spesso mi chiedeva prima di lei, invece di chiedermi come stavo o come andava a lavoro. E anche mia madre si era affezionata, cosa che ancora non le era successo con Raissa, ma sapevo che prima o poi li avrebbe conquistati.
Poi feci la telefonata più difficile: Raissa. Come poteva spiegarsi che il suo ragazzo fosse in ospedale a fare da balia alla sua ex migliore amica, nonché ex compagna, quasi moglie e quasi madre del figlio del suo attuale ragazzo?

“Come sta?” .
“Non proprio alla grande, ha avuto un aborto”.
“Un altro… Si vede che non è destino”. Rimasi in silenzio. Davvero aveva detto queste parole? Era ancora così grande il rancore, da farla sembrare così cinica, nei confronti di un altro essere umano?

“Senti ora passa la dottoressa…”.

“Vai, vai, sei nel posto giusto adesso” e riattaccò. Cosa voleva dirmi? Cosa stava succedendo? Non l’avevo mai sentita così fredda.
Feci per tornare in stanza quando vidi rientrare il tizio, prima di me, così rimasi appena fuori la porta, un po’ per non essere indiscreto, un po’ per sentire cosa stava per succedere.
Urla, sbraiti, da parte dello stronzo, la madre con il pianto che aumentava e i singhiozzi in sottofondo di Elisa. Non potevo accettarlo. Entrai con foga nella stanza sbattendo la porta contro il muro senza evitare che finisse la corsa e mi diressi verso il tizio. Purtroppo l’ultima cosa che ricordo è un pugno che si infrange contro il mio naso e il rimbombo della mia testa che sbatte a terra. Poi il buio.

Mi svegliai con un gran mal di testa, su un lettino d’ospedale, con mia madre e Mirko di fianco che, non appena videro che aprii gli occhi, chiamarono le infermiere. Non avevo forze e non volevo far altro che stare con gli occhi chiusi e ascoltare il silenzio, ma le infermiere cominciarono a controllarmi pressione, valori, gli occhi, la bocca. “Tutto ok, chiamiamo il dottore. Signora, si può riposare adesso”, disse una delle infermiere, guardandola in modo compassionevole, e si allontanarono.

Ero stato otto giorni in coma, a causa dell’impatto della mia nuca sul pavimento. Avevo avuto un grave versamento di sangue all’interno, prontamente gestito dal personale ospedaliero, visto che mi trovato già all’interno dello stabile. Non ricordavo nulla, avevo solo voglia di riposare e di tornare a casa da Raissa.

Mia madre, che aveva già chiamato papà e i parenti stretti – il tutto mentre piangeva – per assicurare loro che mi ero svegliato, mi abbracciò d’istinto non appena le chiesi della mia fidanzata.
Mirko, sicuramente provato anche lui, ma in grado di non farsi prendere troppo dall’emozione, fece un cenno col capo, così eloquente, che non mi sarebbe servita spiegazione: se n’era andata.

A quel punto mi ricordai di come erano andate le cose, del come ero scappato senza preoccuparmi del resto per correre dietro a Elisa e della telefonata carica di sarcasmo.

“Quando è successo?”.

“Credo sia andata via non appena l’ho riportata a casa, è scesa di corsa dalla macchina senza neanche salutare e l’ho vista mettersi subito al telefono”.

Non riuscivo a spiegarmelo. Non credo avesse mai avuto sospetti del fatto che ero stato con Elisa e quella era stata davvero l’unica discussione avuta fino a quel momento.

Mi faceva male tutto, ma sopratutto il dolore veniva da dentro, non potendo neanche alzarmi per andare a chiarire, per andarla a cercare. Mi confermò inoltre, Mirko, che avevano provato a cercarla, ma che non aveva mai risposto a messaggi o telefonate.
Ero abbattuto, nel vero senso della parola. Steso, bloccato su un lettino scricchiolante d’ospedale, con dei tubi che mi uscivano dal naso, dalla testa e dalle braccia. Senza più una ragazza – e che ragazza – e con “l’amante” che aveva abortito da poco, per la seconda volta, un mio figlio. Il naso rotto batteva a ogni lacrima, a causa della pressione nel trattenere la disperazione e il fatto di essersi svegliati non sembrava, poi, più così una buona notizia.

“E Elisa?”.

“Tra poco passa la madre a salutarti”, disse la mia, di madre. La guardai, girando leggermente il capo e lei, tenendomi la mano, facendo attenzione a non sposare le flebo, mi guardò profondamente: sapeva.
“Mi dispiace”, sussurrai. Le si gonfiarono gli occhi di lacrime, non l’avevo mai vista così. Era sempre carica, solare, propositiva. “Sei vivo, a me questo basta”, così piansi anche io.
Dopo qualche minuto bussarono alla porta e Mirko si alzò per aprirla, era la madre della bella biondina.

Mi disse, dopo, mamma che tutti i giorni, la mattina all’andata e la sera al ritorno, passava per chiedere informazioni sul mio stato di salute. “Una cara donna”, aggiunse.

Eppure anche lei di errori ne aveva fatti tanti. Non si era mai occupata di questa figlia, nata troppo presto, a causa di una storia giovanile di una notte. Non sapeva neanche con chi l’avesse concepita, tanto era fatta quella sera. Così, quando nacque la figlia, decise di farla crescere alla nonna e alla zia, continuando a fare la bella vita da ragazza single, avendo appunto neanche venti anni, all’epoca.
Mi ricordo che Elisa mi raccontava delle poche volte che stavano insieme, che era l’unico momento in cui si sentiva accettata, in cui sentiva davvero di ricevere affetto. Perché, in effetti, sicuramente le voleva bene, però poi le cose si fanno prendere la mano e la signora, a quel punto divenuta tale, si era sposata e aveva avuto altri figli che, vuoi o non vuoi, erano quotidianamente i suoi figli, mentre Elisa era la figlia da andare a trovare ogni tanto, nei weekend.
“Sono contenta ti sia svegliato! Mia figlia ci tiene così tanto a te”.

“Come sta?”.
“Stabile. Purtroppo il tumore è tornato e dovrà fare altri cicli di chemio”.

Dagli occhi mi sgorgavano rubinetti aperti, come sia stato possibile così istantaneamente non saprei dirlo. In un attimo avevo capito tutto. Avevo realizzato che il primo aborto era stato dovuto a questo tumore, scoperto proprio in quell’occasione. Avevo capito del perché era tornata cambiata, del fatto che mi aveva messo le corna col bellimbusto, che voleva troncare con me perché mi amava e non voleva farmi soffrire.

Per questo le stava bene il fatto che l’avessi “sostituita” con Raissa e si stava facendo andare bene la posizione di amante. Per questo, perché mi amava e avrebbe rinunciato a stare con me per non farmi soffrire.

Capii poi, dalla spiegazione della madre, che non sapeva che ero all’oscuro di tutto, che questo tumore sembrava essere sparito con le cure, la prima volta. Per questo l’avevo vista più felice, serena.

“Voglio vederla”, le dissi. Mia madre, la signora e Mirko si guardarono e confabularono un po’, tra loro, poi Mirko si allontanò senza dire nulla.

“Voglio vederla, è importante!”.

Entrò un’infermiera chiamata dal mio amico, che mi assicurò che il giorno dopo avrebbero fatto in modo di farci incontrare.

Passai la notte pensando a Raissa, a quanto aveva potuto soffrire, alla figurante che aveva interpretato, tra i miei lamenti e la mia fissazione per Elisa. Le scrissi un messaggio: “Lo so che non vuoi più saperne di me, lo capisco. Vorrei solo chiederti scusa, perché potrebbe capitare che qualcuno muoia e non bisognerebbe mai lasciarsi senza almeno aver chiesto scusa. Non avevo capito, ma ora sì. Lei mi ama e la amo anche io. Era giusto dirtelo. Spero tu abbia ripreso tutto da casa, io non credo che potrò andarci così presto, a controllare. Buona vita, Giò”.

Non rispose mai a questo messaggio, ne capii successivamente il motivo.

Erano circa le 10 del mattino quando sentimmo, io e mio padre, bussare alla porta. Subito dopo sentii bussare anche dentro al mio petto.
“Avanti fece papà col vocione che lo contraddistingueva”.

“Ciao!”. Aveva il viso pallido e delle strane occhiaie, ma a me sembrava sempre bella.

“So tutto”. Lei annuì.

Mio padre, che non se lo fece chiedere, avvicinò al letto la carrozzina sulla quale era adagiata la mia bellissima creatura; le diede un bacio con lo schiocco, che lei apprezzò, sulla guancia e si allontanò.

“Io scelgo te”, le dissi senza mezzi termini, senza paura, senza aspettarmi nulla; volevo solo dirle quella frase.
“Ma lo sai che ho un tumore, che potrei morire a breve – lacrimò da entrambe gli occhi – che futuro ci aspetta?”

“Non mi interessa del futuro. Non mi interessa neanche alzarmi più da questo letto. Volevo solo dirti che ho scelto te. E che qualsiasi cosa abbia in serbo il nostro destino, un’ora, un giorno, un anno… Io finalmente ho capito. Io finalmente ho scelto te”.

Piangemmo a dirotto per un po’ e fu alquanto imbarazzante, soprattutto per il fatto che non potevamo consolarci, abbracciandoci.
“Sono troppo debole anche per contestarlo”, rispose sorridendo tra le lacrime, asciugandosi il naso con la manica della camicia da notte.

Le giurai che ero sicuro e che, se ci fosse stata la possibilità, l’avrei sposata; cosa che non mi era riuscito di fare, per poco, in passato.

Quando la riportarono nella sua stanza rientrò mio padre, e con lui Mirko, che aveva in mano un foglietto.
“Oh, io te lo do, ma non fa lo stronzo te lo dico. L’ho preso a casa tua, so’ andato a prende un cambio”, e mi passò il biglietto.
“Giò, mi dispiace. Ho capito che non sono io la tua Lei. E lo ha capito anche lei. Qualche giorno fa mi ha mandato un messaggio dicendo che ti avrebbe lasciato stare definitivamente, questa volta. Non so esattamente cosa voglia dire, non ho voluto risponderle e approfondire, ma io ci leggo che è ancora innamorata di te. E tu, oggi, sei scappato con quella foga, come se ti avessero portato via la cosa più cara. Avrei voluto essere per te, quella Lei come lo è stata Elisa. Forse sarebbe stato giusto se aveste avuto un figlio e vi foste sposati, o forse no; questo non lo so. So solo che, quando sarò nuovamente pronta ad avere un ragazzo, vorrei che corresse a salvarmi con quella foga, con quella fretta, se ne avessi bisogno. Buona vita, Raissa”.

Insieme al biglietto, Mirko aveva anche un lettore mp3 che mi passò, per farmi ascoltare cosa c’era registrato. Una sola canzone: “Human after all”.
“Siamo umani, dopo tutto. Molte cose in comune, dopo tutto”.

UMANI, DOPOTUTTO gen 2021ultima modifica: 2022-07-04T15:56:07+02:00da pabproject
Reposta per primo quest’articolo