CIAO – lug 2019

La rincontrai che era passato quasi un mese. Non avevo idea del dove avesse passato quel periodo e neanche se avesse continuato la relazione con il suo capo. Mi sembrava tutto così irreale, assurdo che non potevo credere di aver passato un mese da solo in quella casa, dove la sua assenza mi aveva portato a provare delle crisi d’astinenza atroci, tanto da arrivare quasi a soffocare dal pianto e non mangiare per due giorni consecutivi, come al limitare al minimo le volte che andavo a fare pipì.
Si dice che, ai primi sintomi di depressione profonda, il corpo e la mente delle persone sono così poco abituate a una gestione tanto diversa, che il fisico smette di funzionare normalmente e si mette come a “riposo”, come se volesse limitare le preoccupazioni verso sé stesso e farci concentrare ancora di più sul problema che, visto da dentro, sembra completamente insostenibile e inaffrontabile.
Fatto sta che i giorni che non andavo a lavoro non mangiavo, non urinavo, non mi lavavo, non bevevo, non ascoltavo la musica… Guardavo solo la televisione ma in modo completamente passivo, facendo scorrere anche la pubblicità senza interromperla o saltarla o fare zapping. Sembravo un pupazzo.

Non deve aver visto un bell’essere a quell’incontro.

“Ciao”, mi disse avvicinandosi. Aveva gli occhiali scuri, vestiti scuri che non ero sicuro del dove li avesse recuperati e un’aria distrutta. Non stava bene neanche lei.

“Come stai?”, le chiesi e la voce si ruppe in gola facendo uscire un suono strano, diverso dal mio solito tono. Ingoiai la saliva e mi sembrò come se stessi per ingoiare un calzino.

“Come vuoi che vada? Mi manchi”, replicò istintivamente e scoppiò a piangere.
Piansi anche io, mi faceva di un male ripensare a quella foto, che ancora tenevo nel telefono.

“Se lo avessi saputo non mi sarei mai innamorato di te” le dissi inveendole contro. “Non ti amavo e non ti volevo e ho sbagliato a farmi convincere. Mi facevi stare bene ma per poco, perché poi l’effetto svaniva poco dopo e mi sentivo come un tossico, che avrebbe avuto voglia di farsi di nuovo”.

Lei non riuscì neanche a guardarmi e il suo pianto esplose ancora più forte, con singhiozzi e moccio. Dal dolore si piegò su sé stessa e si mise in ginocchio, toccando quasi la fronte a terra.

A quel punto non mi era più consentito dire altro, l’avevo dilaniata con quella verità e, probabilmente, il suo era stato quello che avrebbe poi chiamato, in futuro, l’errore più grande della sua vita.

Prelevai dalla macchina gli scatoloni che le avevo preparato, non volevo salisse su casa e vedesse le condizioni nelle quali avevo vissuto quell’ultimo periodo, e li appoggiai vicino a lei, impilati.
Non avevo idea di come li avrebbe portati via, l’avevo vista arrivare a piedi e non aveva mai avuto un’auto qui a Roma. Feci per allontanarmi ma mi ricordai di una cosa che non avrei mai voluto dirle: “Ti sei ricordata di disdire la cerimonia e la sala?”.
Alzò il viso e vidi rigoli di rimmel scendere sulle guance da sotto la montatura degli occhiali. “Puoi farlo tu?”, mi chiese con la voce strozzata mentre si asciugava il naso con la manica della maglia. Annuii e nel mentre pensai: “Il giorno dei cornuti”.

Salii in macchina e mi allontanai il più velocemente possibile, le lacrime mi bagnavano i jeans e la vista mi si era offuscata, ripensavo al suono della sua voce di poco prima, ai suoi singhiozzi, alle sue mani, alle canne, alle canotte che usava portare in casa che le lasciavano intravedere il seno, al suo culo, ai tacchi, alle risate, a quel giorno che mi chiese di sposarla su quel prato… E l’istinto di sbandare e buttarmi sull’altra corsia a occhi chiusi fu davvero forte.
Risi istericamente al pensiero, cercai di fare quanto più rumore possibile, urlando a squarciagola in quell’abitacolo che sembrava ormai una gabbia e, prendendo a colpi di manate il volante feci un bel respiro e accostai l’auto. Lo sconforto si affacciò minaccioso e, istintivamente, misi su lo stereo con ” The game of love”; “il gioco dell’amore”, pensai, così feci inversione e tornai laddove ci eravamo appena lasciati. La coerenza fatta persona.

La trovai seduta sugli scatoloni a guardare il telefono come se fosse ciecata, con lo schermo molto vicino al viso e la chiamai: “Sali che ti porto io!”. Alzò lo sguardo e, come se avesse visto un angelo, le si illuminò il volto. Attraversò di corsa senza neanche guardare la strada e, arrivata all’altezza del mio finestrino, mi chiese: “Mi rivuoi con te?”. Lo sguardo disperato, che prima non potevo vedere per gli occhiali, ora era languido, in attesa di un mio cenno, come un cane obbediente ma affamato guarderebbe il padrone che ha in mano un croccantino. “Perché tu torneresti?”, le chiesi. Abbassò lo sguardo; ammetterlo era dura, per entrambe, ma il gioco dell’amore si era rotto, chissà perché, chissà quando. “Non lo so”, rispose sottovoce, e lo stesso dissi anche io. “Dai sali che ti accompagno”.

Caricammo di nuovo la macchina e mi diressi all’indirizzo che mi indicò, senza chiederle né dove andava, né con chi, né perché. Sarebbe stato troppo doloroso.
Lo stereo messo in pausa riprese a suonare una volta avviata l’auto e lei mi strinse la mano, che tenevo sulla marcia; la guardai, mi sorrise: “Forse ti amerò per sempre”, mi sussurrò e qualche lacrima le riprese a scendere sulle guance. “Non possiamo più stare insieme perché è successa una cosa che non posso dirti, e quello ha cambiato un po’ le cose. Però non doveva andare così, pensavo di essere più forte, di farcela, di superare tutto e tutti… Ma mi sono sopravvalutata. Avrei preferito spiegartelo prima, lasciarti in modo dignitoso, o magari sparire lasciando una lettera, non lo so. Fatto sta che fa tutto schifo.” Spalancò d’improvviso la portiera, “Siamo arrivati basta così non ce la faccio… Ciao!” e scaricò di corsa i pacchi. Sbattuta la portiera guardai davanti a me e mi allontanai.

“Ma allora c’è stato un evento esterno”, pensai. Perché proprio non era possibile che mi avesse sostituito in quel modo. Io non potevo crederlo, non potevo accettare che la sua fissa per me fosse svanita del tutto. Non era possibile essere privati dell’unica certezza che la vita mi aveva dato fino a quel momento. “Non era possibile… Ciao…”.

CIAO – lug 2019ultima modifica: 2022-05-02T17:17:01+02:00da pabproject
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