STAVOLTA È VERO – nov 2020

Sento squillare il telefono con insistenza e mi alzo di scatto.

Con gli occhi sgranati guardo fuori dalla finestra; è buio.

Caccio via Fred, che mi si era posizionato tra le gambe mentre dormivo, per rispondere alla telefonata e, nel frattempo, do un’occhiata all’ora: sono quasi le 19,00.

Quanto ho dormito? Che giorno è? Cos’è successo?

Guardo il pigiama, che è zuppo di sudore. “La febbre”, esprimo a voce alta, seppur non ci sia nessuno lì con me.

Prendo il telefono e rispondo.

“Come stai bello di mamma? Ti sei ripreso?”.

“Sì, mà, tranquilla. Mica c’ho dieci anni”.

“Sempre mamma so io è, ricordatelo! Aspetta, ti passo papà”.

“Amore come stai?”.

“Bene pà, grazie per ieri”.

“Quando hai bisogno lo sai che ci siamo. Senti e di Elisa invece, c’è qualche novità?”.

“Ma Elisa è mo… è molto che non la sento. Senti, ci sentiamo dopo che c’ho una chiamata di lavoro sotto”.

Non è morta. Non siamo più stati insieme, ma sicuramente non è morta. NON È MORTA! Ma che è successo? Un acuto mal di testa non riesce a farmi ragionare, così mi dirigo davanti allo specchio e mi riconosco, almeno quello. Provo a osservare l’interno occhi, cerco di controllare la gola, mi stiro per sentire come sta schiena e collo.

Sto benino, il malessere deve essere passato, con quella sudata e la lunga dormita. Sì, ma che è successo?

Ricordo benissimo di essermi addormentato sul divano dopo aver strimpellato un po’ la chitarra e aver cercato annunci di lavoro.

“Ma allora Elisa è viva… È viva!”.

Cercando tra le notifiche del telefono provo a vedere se c’è qualche traccia di quello che, a tutti gli effetti, sembra essere stato un lunghissimo sogno.

Con Elisa non ci sono messaggi scambiati da oltre un anno.

Non ho numeri di Raissa in rubrica, tantomeno contatti social.

Chiamo Mirko.

“Mirko! Ma oggi sei passato qua, per caso?”.

“Oh ma che stai ‘mbriaco? ‘Nte ricordi che sto in Marocco?”.

“Ah cazzo è vero, scusa ma so’ stato male male e c’ho un po’ de confusione, ci sentiamo quando rientri”.

Non era successo nulla.

Non avevo perso il lavoro, non avevo avuto una relazione con Raissa, non avevo fatto cazzate, ma soprattutto Elisa non era morta.

“CAZZO NON È MORTAAAAAA”.

Richiamo i miei.

“Pà, senti un po’ una cosa, ma perché m’hai chiesto di Elisa?”.

“Eeeh Marì, vié ‘npo’ a sentì che vo’ tu fijo?!”.

“Dai che c’ho da fa’, che volete?” si sente in lontananza, la voce di mamma.

“Sentì pà, è che qua sta a succede un casino. Spiega che stai a nasconde”.

“C’è venuta a trovà qualche tempo fa, boh tipo venti giorni fa. Passava da ‘ste parti e ha citofonato, s’è presa un caffè e basta, niente di che”.

“Scusa e perché me lo stai tenendo nascosto?”, cercai di restare calmo.

“No, niente… è che a me m’è sembrato che, boh, cercasse notizie su di te. Oh, sia chiaro, io non jo detto niente è!”.

“Se vabbeh, ho capito và. Dai buonanotte!”.

“E bonasera”.

Sto pensando che dovrei riprendermela. Sticazzi delle corna, della sofferenza, della figura di merda che farò: io la rivoglio con me. Vado in camera, organizzo i vestiti per l’indomani mattina, faccio una doccia e poi a dormire. Voglio essere in forze per far valere i miei diritti: Elisa mi ama e io lo stesso, l’ho capito solo ora.

Purtroppo la notte non passa mai e io, che delle ultime ventiquattro ore ne ho dormite tipo diciotto, non riesco a prendere sonno.

Guardo il telefono, ascolto la musica con le cuffiette, guardo la tv, gioco col gatto, ma niente, sono sveglio come se fossero le nove di mattina. Riguardo per l’ennesima volta l’orario, sono le 2,20 e faccio un sospiro di sollievo, ormai è andata così. Mi vesto e scendo in strada, cercando una macchinetta per le sigarette, sperando che il tempo passi il più velocemente possibile, quando un ricordo mi assale:

il biglietto datomi nel sogno diceva che ora sarebbe dovuta andare. Dovrei forse lasciarla salpare via, salutandola col fazzoletto, come fosse un transatlantico, col rischio che si imbatta in un iceberg e non faccia mai più ritorno?

No, non le darò la possibilità di farlo senza combattere. E non voglio sentirmi dire che è troppo tardi. Non è mai troppo tardi.

Così decido di scriverle un messaggio:

“Se e quando puoi, avrei bisogno di un confronto. So che stai male”.

Così, senza mezzi termini, senza paura, senza vergogna, proprio come mi ha insegnato lei.

A volte le cose vanno così per metterci alla prova, per testarci, per farci capire dove possiamo arrivare. Se siamo in grado di perdonare, se scegliamo delle strade che non dovremmo percorrere, se possiamo avere abbastanza coraggio per affrontare gli ostacoli e permetterci di vivere un’esistenza dignitosa, sotto molti punti di vista. Se sappiamo amare.

Se, sottoposti a trappole, decidiamo comunque di viaggiare diritti o, lasciandoci trasportare dalle onde, rimanere consapevoli che qualunque sia la scelta, il punto di arrivo rimane lo stesso.

“Ci sono anche ora, se vuoi”.

Sento il cuore che batte all’impazzata. “Oddio un infarto!”. Penso di dover rispondere immediatamente: “Sto sotto casa, se vuoi prendo la macchina ora e ti raggiungo ovunque”.

Decido così di aspettare una risposta, già posizionato nell’abitacolo con la chiave inserita, per poter partire quanto prima. Infatti la risposta non tarda ad arrivare, nella quale viene inserito un indirizzo.

Scatto come il miglior Schumacher, impostando il navigatore per arrivare il prima possibile senza perdermi. “Arriverai alle tre e undici minuti”, dice la voce fastidiosa.

Arrivato all’indirizzo riconosco la zona in cui l’avevo mollata con i pacchi, il giorno che ci eravamo ufficialmente detti addio. Dopo averla avvertita di essere arrivato, la vedo avvicinarsi di corsa per raggiunge la mia macchina. Apre la portiera e si siede, con fare un po’ ritratto e chiuso, e con un cappuccio della felpa che le copre i capelli e la fronte.

“Cos’avevi di così ugente da dirmi?”.

“So che sei passata dai miei, come mai?”.

“Beh, per salutarli, ero lì in zona. Mi dispiaceva non aver dato loro un ultimo abbraccio”.

“Ti credo. Però dimmi una cosa, voglio la verità. Cosa è successo a Prato?”

La vedo prendere aria e chinare il capo, per rivolgere lo sguardo verso il basso, così mi avvicino, le accarezzo una spalla, cercando di rassicurarla e togliendole il cappuccio, noto il viso smagrito, stanco, bianco e con gli zigomi sporgenti.

“Stai male, vero?” dissi riprendendo a parlare e aggiunsi: “L’hai perso per questo?”, facendo scorrere la mano lungo il giaccone all’altezza del ventre.

Il suo sguardo è rivolto verso l’alto ora, con gli occhi ricolmi, bisognosi di versare lacrime, come se qualcuno dovesse improvvisamente girare delle brocche d’acqua.

“Come fai a saperlo?”.

“Perché non me lo hai detto? Perché ti sei rifugiata dentro di te? Perché non mi hai reso partecipe di questo dolore? Non ti sto chiedendo del perché tu mi abbia messo le corna, posso capirlo. Ti chiedo perché non mi hai reputato all’altezza di affrontarlo insieme”.

“Perché ti amo”. Vomita istintivamente singhiozzando, lasciandosi andare, finalmente, al pianto disperato e liberatorio.

Il mio abbraccio è forte. Forte come se non volessi più lasciarla scappare, come se dovessi proteggerla da bombe incendiarie, come se fosse proprio lei la madre dei miei figli.

“Anche io ti amo e mi dispiace averlo capito così tardi”. Ma a questo punto piango anche io dicendolo, aggiungendo poi: “Se me lo lasci fare combatteremo insieme, vieni via con me, ora”.

Non c’è nessun posto dal quale deve andare via, in realtà. Semplicemente perché non ha mai vissuto con il suo capo e la casa dove è appoggiata, da ormai un anno abbondante, è la camera di un B&B.

“Ho fatto l’errore più grande della mia vita, ma ho aspettato ogni giorno, questo momento”, giura con occhi languidi, dopo aver caricato l’ultimo pacco in auto.

Questa è la nostra seconda possibilità e questa volta non ci sono dipendenze, paure, assuefazioni o astinenze. Questa volta l’unica droga è l’amore.

STAVOLTA È VERO – nov 2020ultima modifica: 2022-07-29T00:37:25+02:00da pabproject
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