IL MOMENTO MIGLIORE DELLA MIA VITA gen 2021 – feb 2021

I giorni passarono e noi due avevamo preso a “frequentarci” in quello strano modo. Le prime volte veniva accompagnata nella mia camera da qualche buon uomo passante per caso, da quelle parti, mentre a volte erano le infermiere a spostarla. A volte, invece, era lei, quando si sentiva meglio, a camminare, ma sempre scortata dalla sua fedele carrozzina. Poi, iniziando a stare anche io meglio, cominciammo a “uscire” insieme. Ci vedevamo in sala d’attesa al mio piano, a volte al suo, oppure alla macchinetta del caffè, a volte in corridoio, davanti alla vetrata, che dava proprio sul giardino; un bel giardino curato, ricco di siepi, rose, aiuole e panchine.

“Chissà se riuscirò più a godere di una passeggiata in un bel giardino fiorito, con te”, disse una di quelle volte Elisa, alzando le spalle per permettere all’aria di entrare nei polmoni fino in fondo, con un sospiro.

Il tempo passava lentamente ma, conoscendo la sua situazione di salute, avrei ceduto entrambe le gambe perché rallentasse ancora.

Non mi mancavano i momenti di passione e divertimento. Non mi mancavano le sue mani, il suo corpo e le cose che sapeva fare. Sentivo che a mancarmi era lei, anche quando eravamo insieme.

Sentivo che quella dipendenza non c’era più e il fuoco della passione si era trasformato in qualcosa di più umano, più intenso, ma a livello di coscienza. Sentivo un vero affetto profondo per lei.

Chissà che non era quella condizione di debolezza ad avermi “ammorbidito”.

Oppure la sua situazione, così delicata, a rendermi più propenso a un rapporto sano, ad aprirmi, finalmente, alla possibilità di un sentimento vero e puro.

Non l’ho mai capito.

“Torneremo a fare l’amore infrattati nelle siepi”, le dissi, sorridendole.

Rispose con un sorriso anche lei, anche se sembrava triste. Continuava a guardare fuori la finestra e io, che non sapevo cosa poter dire in quel momento così strano, mi fissai a guardare il suo viso riflesso sul vetro, quel vetro che ci divideva dal mondo vero, dall’esterno.

Era bellissima. Era distrutta, annientata, smagrita, prosciugata delle sue forze, ma continuava a piacermi. Anzi, mi piaceva più ora che non i primi tempi che eravamo assieme, così decisi e lo feci.

Presi coraggio, non tanto per le parole, quanto per la posizione che non mi era troppo comoda, visto lo stato da ex comatoso. Presi la bottiglietta d’acqua che avevo dietro e la stappai, tolsi il cerchietto che sigilla il tappo, quando è nuova, e mi inginocchiai di fianco a lei. Mi guardò, tra lo stupita e l’interdetta, con la fronte aggrottata ma lo sguardo che tradiva un po’ di commozione e le feci la fatidica domanda: “Mi vuoi sposare, per davvero, senza ripensamenti, senza imprevisti, senza timori, questa volta?”.

Forse lo dissi un po’ troppo a voce alta tanto che le sue guance arrossirono, colore che non mostravano da tempo ormai. In più, i pazienti e i visitatori vicini cominciarono ad applaudire, fischiare e urlare, come fosse l’epilogo di uno di quel film d’amore, che raggiunge, finalmente dopo due ore di tira e molla, il suo lieto fine.

Ma quello non era un film. Lo sapevamo entrambe che, forse, per noi non ci sarebbe stato nessun lieto fine. Ma ormai eravamo in ballo e dovevamo ballare. Lo dovevamo fare, per noi, per chi ci aveva conosciuto, per combattere una malattia che non si può sconfiggere, per mandare affanculo il destino e per fare il verso dell’ombrello a tutti gli ostacoli che ci si erano posti davanti, e davanti ai quali avevamo fatto le più svariate capriole per evitarli, sapendo però che, prima o poi, se ostacoli devono essere, questi ti cascano in testa, piuttosto che fartela passare liscia.

Così le chiesi di sposarmi e stavolta lo volevo davvero.

“Sì”. Una voce tremolante, docile, sommessa, uscì dalla sua bocca, insieme a qualche lacrima che solcava il suo profilo, scendendo come Alberto Tomba in uno slalom tra zigomi e mento.

Le presi, non senza sforzo, la mano, la baciai e mi alzai per abbracciarla. Non fu facile ma per lo meno sentimmo un po’ di contatto umano, dopo tutto quel guardarsi, parlare e piangere, senza neanche potersi scambiare una carezza.

Decidemmo, così, di convolare a nozze, per modo di dire, proprio in ospedale, un mese dopo quella data, tra la felicità di tutti i dottori, le infermiere, i parenti e gli amici stretti. Avevamo giustificatamente fretta.

Arrivò presto il fatidico giorno, tra ansia, felicità, vestiti e accessori vari. Io ormai mi ero ripreso abbastanza bene ed ero riuscito a espletare facilmente tutte le pratiche, anche grazie all’aiuto dei miei genitori.

Non la vedevo da tre giorni e già mi mancava da morire. E pensando a cosa sarebbe potuto succedere prima o poi, pensavo che non sarei sopravvissuto a lungo. Ma ormai la scelta era fatta, e questa volta sentivo in cuor mio che era quella giusta.

La aspettai a lungo lì, in piedi, accanto ai miei e a Mirko e tutti, inclusi i presenti, guardavamo fissi la porta d’entrata aspettando che comparisse; finché tutto a tratto, sbucarono due rotelle, poi le gambe, il busto e infine il suo viso, seguito dalla madre, che emozionata, spingeva la carrozzina sulla quale era adagiata quella che stava per diventare mia moglie.

Era più magra ancora, se possibile, e i capelli erano diventati più radi, le si vedevano ai lati del velo che copriva il capo. Il sorriso, cupo, era accompagnato da zigomi sporgenti e occhiaie profonde, ma i suoi occhi erano sempre gli stessi, così come i singhiozzi di pianto, scoppiati non appena il nostro sguardo si era incrociato. Avrei saputo riconoscere il suo pianto tra miliardi di persone, tanto da fare tutt’ora eco, nelle mie orecchie, i singhiozzi del giorno che le consegnai i pacchi.

Dopo un breve riassetto del trucco colato, da parte di sua mamma, feci cenno a Mirko di mettere una nostra specialissima marcia nuziale: “The prime time of your life” sempre dei Daft Punk.

“È il giorno più bello della mia vita”, le sussurrai all’orecchio, prima che il prete iniziò la messa, e lei mi guardò con uno sguardo indimenticabile, come per chiedermi di portarla via da lì, di scappare insieme, di sognare il futuro che, forse, ci meritavamo davvero, stavolta.

“Sì, ti porto via da qui, lo giuro”.

Quello è stato il giorno più bello della mia vita, che ha preceduto di poco il giorno più brutto, quello che mi ha visto doverla portare in spalla, insieme a Mirko e mio padre, per le scale e lungo il cortile, in quella cassa di legno, nella quale, distesa, aveva deciso di scappare per sempre dal dolore.

Ero vedovo, ma almeno ero stato amato e avevo amato davvero, anche se solo per poco.

 

IL MOMENTO MIGLIORE DELLA MIA VITA gen 2021 – feb 2021ultima modifica: 2022-07-11T18:45:11+02:00da pabproject
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