IL GELO – gen 2021

Non riuscivo a togliermi dalla testa quel fastidioso ronzio dalle orecchie dovuto al sogno, strano, al quale non riuscivo a smettere di pensare.
Così mi alzai dal letto con Raissa ancora avvolta dalle calde lenzuola e decisi di farmi una doccia.
L’acqua, che accoglievo a bocca aperta, sgorgava dal soffione scivolando lungo il corpo e, a tratti, lasciavo passare alcune gocce nella gola, ingoiando lentamente l’acqua calda. Un vano tentativo di ripulire i pensieri e i ricordi di quel maledetto sogno che non riuscivo a scacciare dalla mia mente.
A tratti aprivo gli occhi per sincerarmi di non essermi sbagliato e non essere affogato, distrattamente, tanto i pensieri mi portavano via dal posto fisico in cui ero.
Uscii dalla doccia che avevo solo voglia di chiedere a Elisa come stava, cosa era successo e perché non si era fatta più sentire. Non rispose. Anzi, a dire il vero, sembrava come se non potesse ricevere il messaggio, questo mi preoccupò non poco.
“Ciao amore che succede”, mi chiese la mora vedendomi vestire mentre era ancora distesa nel letto.

“Mah, niente… vado a fare due passi, torno presto”.

Non tornai presto.

Andai dove abitava, chiamai Mirko se poteva sapere qualcosa, andai all’ufficio vicino casa e alla sede fuori città, ma di Elisa non c’era traccia.
Tornando verso casa, il cd che avevo nello stereo, passò “Robot rock”, forse uno dei miei pezzi preferiti dell’adolescenza e mi ricordai di quando avevo la biondina per casa. Di quando, con solo gli slip addosso, se ne girava per l’abitazione sistemando e rassettando, mettendo la musica a palla. E del fatto che, quando c’ero io, la musica che metteva era la “mia” musica, quella che mi piaceva e che ero solito ascoltare anche in solitudine. Questo mi faceva stare bene all’epoca, mi faceva sentire speciale. Poi però i pensieri tornavano sempre lì, al fatto che mi aveva tradito, che non riuscivo a gestirmi, alla mancanza di libertà, alla dipendenza dalla sua presenza e dai suoi bisogni, al fatto che per tre anni era stata lei quella completamente dipendente da me e che, per farsi perdonare, per non essere un peso, mi scopava spesso e faceva tante cose strane, a letto e non solo. Come mi faceva sentire questo? Malato. Malato e arrapato allo stesso tempo. E ora che la ripenso la vorrei qui con me, accanto, sul sedile del passeggero, a guardarci di sfuggita come eravamo soliti fare quando eravamo in auto insieme e lei, con le sue mani, veniva a toccarmi i jeans. Quel sopracciglio alzato, quello sguardo da discola, quelle mani. Non saprei neanche spiegare cosa avessero e perché, ma per me erano diventate una fissazione. Sarà che le aveva sempre curate, sarà che erano così invadenti… Capaci di prendersi tutto quello che volevano, sempre e comunque, senza chiedere. Così inopportune, maliziose, porche. Quanto adoravo trovarla sul divano a toccarsi. Speravo sempre, ovviamente, pensasse a me quando si faceva trovare così, ma chissà…
Magari pensava a lui, dopo che lo aveva conosciuto. Magari lo conosceva già da prima e per questo le aveva trovato lavoro. Magari quelle mani non toccavano solo me o lei, ma anche lui.

Mi prese una rabbia che non saprei ancora descrivere, così accostai che mancavano pochi chilometri a casa e, stavolta, provai a chiamarla dal telefono di un bar, chiedendo di poter fare una telefonata.
Niente, spento, come se fosse sparita.

Tornai a casa demoralizzato. “Dove sei stato tutto questo tempo? Non ti ricordi che andiamo dai tuoi a pranzo? Dai, di corsa, che facciamo tardi come al solito”.

Scendemmo e, nel farlo, le presi la mano.
Lei, al contrario di Elisa, era indipendente, forte ma delicata, saggia, equilibrata. Quasi più simile a una mamma già, per l’atteggiamento protettivo e per la “cazziatura” facile. Stare con Raissa non era una preoccupazione mai, anzi. Ma il fatto di essere stato con Elisa non riusciva a rendermi completamente libero da alcuni vincoli mentali. Nonostante il fatto di aver deciso di divertirmi sempre e comunque e di mantenere il rapporto con Elisa “vivo”, non mi riuscivo ancora a esprimere al massimo e, questo, sentivo potesse peggiorare, giorno dopo giorno e che, probabilmente nell’arco di poco tempo, avrei riperso nuovamente la battaglia.
Come se in me avessi un tarlo che continuasse a mangiarmi da dentro.
Volevo essere innamorato di Raissa, ma in modo libero, spensierato, senza pippe mentali o freni inibitori.
Eppure mi era bastato un sogno e qualche ora di non reperibilità del telefono di Elisa per farmi ricadere nel baratro dei pensieri contorti.

La odiavo. Odiavo Elisa con tutto me stesso. Per essersi presa la mia vita con la forza e non aver chiesto permesso, per avermi costretto ad amarla, in un qualche modo, per avermi reso così dipendente dal suo corpo, dalla sua presenza e dalle sue mani. Per avermi schiavizzato con una qualche droga che, troppo spesso, sentivo mancarmi. La odiavo con tutto me stesso soprattutto perché ancora la volevo e, nonostante volessi vivere una storia parallela con lei, per accontentare il mio ego e quel lato maschilista che la voleva vedere come un oggetto, sentivo che prima o poi avrei perso le forze per poter gestire la situazione, e la paura di perdere Raissa si affacciava. Così come si affacciavano ancora dei dubbi sul motivo per il quale non riuscivo ad amare l’attuale compagna in modo onesto, vero e puro.

Cioè a volte mi sembrava di riuscirci, poi però ripiombavo sempre negli stessi dubbi.
Era, forse, Elisa davvero il male, la tentazione fatta persona che tanto declamano i cristiani?

Nei pensieri che affollavano la mia mente, si intromise Raissa, avvertendomi che eravamo arrivati a destinazione e che avrei potuto cercare parcheggio. “Chissà dove sei con la testa…”.

“Scusa, è che ho fatto un brutto sogno stanotte e non riesco a levarmelo dalla mente”.
Mi chiese cosa avessi sognato ma, a quel punto, eravamo ormai a ridosso della porta di casa dei miei, così mi sbrigai a suonare per evitare di continuare quello scambio.

Parlavamo del più e del meno con mio padre quando suonò il telefono di casa.
“Possibile che ‘nte pia mai er telefono?”. Era Mirko.

“Oh e scusa, è che qua dai miei non prende bene. Che succede?”.

“Mettite in un punto ndo’ pia, così vedi co’ l’occhi tua”.

Andai sul balcone e attesi di ricevere le notifiche, tra il preoccupato e il curioso, non sapendo cosa aspettarmi. “Sarà per Elisa?”, pensavo, non avendole preso il telefono per tutta la mattina, finché non arrivò il primo sms:

  • Eli ti ha cercato alle h13,45
  • Eli ti ha cercato alle h13,45
  • Eli ti ha cercato alle h13,46
  • Eli ti ha cercato alle h13,46


Avevo 18 tentativi di telefonate, tutte da parte di Elisa.
Poco dopo mi arrivarono anche i messaggi su whatsapp:

  • Giò ci sei?.
  • Giò rispondi.
  • Hey.
  • Giò.
  • Ti prego.
  • Giò ho bisogno di te appena puoi chiamami.

Chiamai immediatamente ma gli squilli andavano a vuoto, finché non ricevetti un sms da un numero che non conoscevo:

  • Vieni in ospedale, Elisa è stata ricoverata e ti cerca.

Rientrai in sala, dal balcone, con lo sguardo di tutti su di me. “Che è successo? Chi era? Oh Giovà, stai bene?”
Al “Giovanni” mi ripresi un attimo e dissi che Elisa era stata ricoverata e mi cercava e che sarei andato in ospedale. Alché Raissa sbottò furiosa: “Ancora con quella stronza! Magari fa una brutta fine, se lo merita!”, urlò e, sbattendo sedia, mani sul tavolo e infine la porta, se ne andò, dirigendosi verso le scale. Proprio in quel momento sentimmo strombazzare da sotto qualcuno che strillava sbraitando.
“Giovà, è Mirko”, disse mia madre, così scesi anche io, subito dopo Raissa.

Ci organizzammo che Mirko avrebbe riportato a casa la mia ragazza, per poi venirmi a sostenere in ospedale, mentre io mi sarei diretto direttamente da Elisa, per capire di cosa si stesse trattando.
Mi scapicollai tra semafori e parcheggio e, una volta arrivato all’accettazione, chiesi della ragazza.

“È il marito?”, mi chiesero.
“È il padre del feto?”.

Un macigno mi cadde sullo sterno, tanto rimasi senza parole. La mente mi si annebbiò completamente e rivissi il dolore di quello che era successo già in passato, nonostante non lo avessi saputo sul momento. L’Elisa cambiata, il tradimento, i pianti, i sensi di colpa, le frustrazioni, per poi scoprire che era rimasta incinta ma l’aveva perso e non aveva saputo gestire la cosa.
E ora si stava ripresentando la situazione. Ma questa volta non poteva essere mio il figlio. Non doveva esserlo. L’avevamo fatto, sì e pure parecchie volte ma non poteva essere così, stava andando tutto così bene…
“Allora, è lei il padre?” .
“Cosa? No, ma ha chiesto espressamente di me”.

“Possono entrare solo i parenti”.

Piuttosto mi sarei fatto arrestare, quindi decisi, con calma e cautela, di allontanarmi dalla postazione e mi misi in modo che, dal quel punto, non potessero vedermi, aspettando che qualcuno aprisse la porta.
Quando accadde, però, mi ritrovai davanti il bellimbusto, che veniva da dentro il corridoio e, paratomisi proprio davanti, mi disse che mi stava cercando.
Lo seguii e non riuscii a togliermi dalla testa ancora quella scena di lei, seduta sulla scrivania, con lui lì davanti intento nel farla sua. L’avrei ammazzato.
Avevo Raissa, la donna dei miei sogni a casa, ma l’avrei fatto. Non potevo accettarlo. Lei mi amava davvero, l’aveva dimostrato dicendomi di volermi nella sua vita a tutti i costi. Ero io quello che, in passato, si era sempre esposto troppo poco. Lei, invece, sarebbe dovuta essere legata per sempre a me, come una specie d’amore adolescenziale perenne, per il quale piangi e non sai perché.
Eppure a casa avevo la donna dei miei sogni.
Cosa mi stava accadendo? Perché non potevo essere solo innamorato di Raissa e basta? Perché quella mattina l’avevo cercata nella speranza di poter fare l’amore con lei, se nel letto avevo già chi credevo di amare?

Arrivammo a ridosso della stanza quando il tizio si voltò indicandomi il letto e dicendo a voce bassa che era molto vulnerabile, di restare pacato e, qualsiasi cosa fosse successa, di non fare scenate e farla agitare, che la situazione era delicata, poi si allontanò senza dare spiegazioni.

Mi avvicinai al letto e le sfiorai leggermente le gambe, per farle aprire gli occhi, facendole capire che c’era qualcuno lì vicino a lei. Mi sedetti e lei aprì leggermente le palpebre, girando gli occhi verso di me, per poi richiuderli immediatamente. Una lacrima uscì dal lato dell’occhio e le scivolò fino a entrare nell’orecchio. L’asciugai sussurrandole che tutto sarebbe andato bene, che non doveva preoccuparsi. Ora c’ero io lì con lei.

“L’ho perso, di nuovo”, sussurrò mentre cominciò a piangere.

Un silenzio ovattato mi isolò dal resto del mondo: ero io contro i miei pensieri e quella sensazione di aver perso, di nuovo, qualcosa di mio, di importante, come se mi avessero levato tutto da un momento all’altro.

“Il bambino…” sussurrai fissando il lenzuolo che la copriva all’altezza del ventre, senza la forza neanche di sbattere gli occhi e far scendere il liquido che vi si stava accumulando.
“Sei sicura che…”, non riuscii a finire la frase “Sì, per forza. Sei l’unico con il quale l’ho fatto negli ultimi mesi”.

Il gelo.

IL GELO – gen 2021ultima modifica: 2022-06-27T10:05:28+02:00da pabproject
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